“Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto”.
Proviamo a manomettere uno degli incipit più famosi dell’autore di Palomar: “State per cominciare a leggere il nuovo romanzo …. Rilassatevi. Raccoglietevi. Allontanate da voi ogni altro pensiero…”. Se il tu per un attimo si allarga abbracciando il voi, la lettura da pratica solitaria, separata, può trasformarsi in un esercizio comunitario, di associazione, di alleanza antropologica.
È vero che chi legge non è mai solo, come spesso è stato detto: la lettura è un misterioso e indefinibile “a tu per tu”, del lettore con lo scrittore ovviamente ma anche viceversa.
Chi legge inevitabilmente si isola dal contesto che lo circonda, prova a far sbiadire cose e rumori. Prendere un libro, aprirlo, far scorrere gli occhi da sinistra verso destra per capirci qualcosa significa rimuovere il resto e sistemarsi da un’altra parte.
Ma sempre fino a un certo punto, mai in assoluto perché in quel momento, a chi legge, qualcuno sta raccontando una storia. Magari nel modo più imparziale e oggettivo possibile, eppure quella voce nascosta, dissimulata, è sempre riconducibile a un immaginario, quello dell’autore, che prende la forma delle parole allineate.


Da pratica solitaria però la lettura può pure trasformarsi in impresa condivisa, collettiva. Se così avviene l’interesse personale comincia a lasciare spazio a una partecipazione diversa, a un coinvolgimento di altro tipo. A un richiamo che ci schioda dalla nostra confort zone per immetterci in uno spazio altro.


Occorre a questo punto fare subito un passo indietro: per ritornare all’esercizio solipsistico della lettura. Che richiede, ad ogni modo, un certo sforzo, perché implica una fatica da affrontare, un ostacolo da superare. Lo aveva messo in luce Cesare Pavese in un breve scritto poco noto, poi allineato nel volume dei saggi. L’inciampo della lettura a suo avviso è da ricondurre alla “troppa sicurezza di sé”, alla “mancanza di umiltà”, al “rifiuto ad accogliere l’altro, il diverso”.
Pavese lo ribadisce più volte: di solito dà fastidio e ferisce il fatto di scoprire che qualcuno abbia veduto diversamente da noi. Il problema è che siamo fatti di abitudine, di triste routine. Abitudine e routine messe alle strette dallo stupore che ci prende quando leggiamo qualcosa che ci costringe a uscire da noi stessi, a compromettere l’equilibrio usuale, per provare a ritrovarne uno “forse più arrischiato”. È in quel momento che il lettore arriccia la bocca, pesta i piedi.
In poche parole: Pavese sapeva bene che è facile accettare la prospettiva più banale, o quella consolatoria, che ci blandisce con estrema agio.


Leggere, dunque, non è per nulla facile. Se leggere significa provare a comprendere gli altri, se leggere fa rima con carità verso gli altri. Se leggere ha a che fare con la preparazione al cambiamento.


Lo sa bene chi lo ha provato: la lettura può trascinarti laddove non avresti mai immaginato di mettere piede. In questo processo di dislocazione non cambia solo lo scenario, muta soprattutto chi dalle parole è incalzato alla stregua di una muta di cani rabbiosi. Quando questo succede il brivido alla spina dorsale lascia lo spazio alla vertigine bella e buona: puoi anche arrivare al punto di non riconoscerti più, oppure puoi prendere coscienza in quel momento di chi sei davvero.
La lettura coincide sovente con un processo di disturbante autoagnizione. Ma è proprio in quel momento che succede qualcos’altro. Si tratta di un aspetto che fa da trait d’union tra la scrittura e la lettura. Lo ha spiegato da par suo Orhan Pamuk nel volumetto “La valigia di mio padre”, parlando dell’arte del romanzo, che a suo dire consiste sostanzialmente nel “trasformare l’altro, lo straniero, il nemico che abbiamo nella testa”. È possibile scrivere romanzi immaginando i personaggi in situazioni somiglianti alle nostre, chiosa l’autore de “Il museo dell’innocenza”. “Vogliamo prima di tutto che il romanzo racconti di persone simili a noi, anzi di noi stessi. Raccontiamo una madre simile alla nostra, un padre come il nostro, una famiglia, una casa, una strada, una città e un paese che conosciamo bene. Ma le regole strane e magiche dell’arte del romanzo trasformano improvvisamente la nostra famiglia, la nostra casa e la nostra città in luoghi che appartengono a tutti”.
Gli straordinari congegni dell’arte romanzesca servono a chi scrive per offrire a tutta l’umanità “la propria storia come se fosse la storia di un estraneo”. L’arte del romanzo è, dunque, la capacità di raccontare la propria storia come se fosse la storia degli altri: ma è solo una peculiarità di questa grande arte che da quattro secoli almeno appassiona i lettori con tutta la sua potenza e avvince e galvanizza i romanzieri. “L’altro aspetto – spiega il premio Nobel – è costituito da ciò che mi portò sulle strade di Francoforte o di Kars: la possibilità di scrivere la storia degli altri come se fosse la mia storia. In questo modo, attraverso i buoni romanzi, cerchiamo di cambiare prima i confini degli altri, poi i nostri. Gli altri diventano noi e noi gli altri”.


Ma anche la lettura può cambiare i nostri confini, ci induce a diventare gli altri: la lettura ci fa intendere quanto il nostro rifiuto ad accogliere il diverso sia una posizione pregiudiziale, un atto di precomprensione. Da qui la consapevolezza che leggere significa ridurre anche di pochissimo la distanza che ci separa dagli sconosciuti o dai nostri vicini, ai quali ugualmente con qualche sospetto guardiamo.


C’è di più però: la lettura, come si diceva, può diventare pratica condivisa. Una pratica che coinvolge un gruppo di lettori: di certo quella lettura sarà ancora più attenta, profonda, generosa perché si realizza mettendo in comune giudizi, intuizioni.
La dimensione comunitaria della lettura, che può rivelarsi uno straordinario laboratorio, un opificio di stimoli e di visioni, ha oltretutto contrassegnato esperienze perigliose e avvincenti, legate a momenti strategici della Storia. Non è un caso, infatti, che i circoli politici segreti in Renania erano legati alle “Società di lettura”, come pure i club giacobini.
E si sa che quando i sudditi o i cittadini leggono, i dominatori trascorrono notti inquete. Lo ha ribadito più volte Heinrich Böll: leggere rende ribelli. “Là dove la lettura comincia ad andare oltre il semplice processo tecnico, oltre la pura e semplice sgobbata scolastica, essa diventa pericolosa”. Leggere fa pensare, può renderti libero e ribelle. Le persone che leggono non sono mai i cittadini più ubbidienti, non sono mai quelli che se la bevono, quelli che si lasciano ottundere dalla propaganda.


Leggere insieme cementifica ulteriormente la comunità, la blinda dalle lusinghe del potere, il processo di condivisione rafforza i legami, rende più resistente il tessuto sociale.


Leggere insieme in biblioteca, ad esempio: oltretutto le biblioteche, sono sempre parole di Böll, rappresentano “rifugi e luoghi di libertà dove a nessuno, all’infuori del bibliotecario che deve dare il libro a prestito, deve interessare chi legge che cosa”. Nel Lavoro culturale di Luciano Bianciardi, scrittore a torto oggi poco frequentato, uno degli intellettuali che da Roma approdano alla provincia per illuminare d’immenso cittadini, avvocati, professionisti, medici, insegnanti, spiega “quale sia l’ufficio di una biblioteca in un paese civile e moderno. La biblioteca italiana di solito si limita alla conservazione del glorioso nostro patrimonio bibliografico”, ma una biblioteca veramente moderna “deve proporsi di andare incontro al lettore, invitarlo alla lettura, presentandogli il libro aperto”.
Anche i festival possono contribuire a potenziare il rapporto tra persone e libri, a rinvigorirlo. Costituiscono oltretutto un’opportunità di aggiornamento continuo per gli addetti ai lavori. Pensiamo ai professori ad esempio, che oggi arrancano per far appassionare gli studenti a Virgilio, a Dante, per inoculare loro il tarlo della curiosità. Professori fotografati impietosamente dallo stesso Bianciardi nelle sue pagine stridenti: “Si lamentavano dello stipendio troppo scarso, dei programmi pesanti, degli alunni che non avevano voglia di far niente”. Potremmo coniugare al presente i verbi di questa pericope nel caso di tanti docenti che oggi non mettono piede in biblioteca, che non spendono tre euro per acquistare un biglietto e visitare una fiera, un festival.


Dire in classe che leggere è bello, interessante, divertente può non bastare. Anzi, non basta per niente. Leggere, lo sanno i nostri ragazzi, risulta sovente noioso, non rende immediatamente felici. È più facile darsela a gambe di fronte alla pagina scritta piuttosto che scommettere su una storia, puntare su un libro e rinunciare a qualcos’altro.


L’autore Salvatore Ferlita

Salvatore Ferlita, nato a Palermo nel 1974, è professore associato di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli studi di Enna Kore.
Critico letterario e saggista, da anni collabora a “la Repubblica” (edizione siciliana). Dirige le collane “Le città di carta”, per le edizioni del Palindromo, e “Antonio Russello Opere” per Medinova.
Ha scritto, tra l’altro, I soliti ignoti (Dario Flaccovio, 2005), con la prefazione di Andrea Camilleri, Sperimentalismo e avanguardia (Sellerio, 2008) Contro l’espressionismo. Dimenticare Gadda e la sua eterna funzione (Liguori, 2011). E ancora Le arance non raccolte. Scrittori siciliani del Novecento (Palumbo, 2011), Alla corte di Federico (Bonanno, 2012), Non per viltade. Papi sull’orlo di  una crisi (Mimesis, 2013), Palermo di carta. Mappa letteraria della città (il Palindromo 2013 e 2019 in edizione accresciuta), La fine del tempo. Apocalisse e post-apocalisse nella narrativa novecentesca (FrancoAngeli 2015) con Fabio La Mantia, Letture ricreative. Traiettorie e costellazioni letterarie (il Palindromo 2016) e Il libro è una strana trottola. Genesi e trasformazione della parola letteraria (Palindromo 2018).
Nel 2019 ha curato Pinocchio. La storia di un burattino (il Palindromo).

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