«Se l’occhio non si esercita, non vede,
/ se la pelle non tocca, non sa,
/ se l’uomo non immagina, si spegne»
Danilo Dolci, Il limone lunare, Laterza 1970

Tra le riflessioni che hanno caratterizzato la comunità globale travolta dalla pandemia, si inserisce, anche, la riflessione sulla “città degli uomini”.

Non è un tema nuovo, per la verità. Nel tempo si sono sviluppate ampie elaborazioni teoriche, che hanno coinvolto discipline diverse, sul rapporto tra lo spazio urbano e le relazioni umane. Filosofi, urbanisti, sociologi e teologi hanno dibattuto sulla idealità di una città perfetta. La città del Sole, ad esempio, secondo Campanella. Una città con leggi e costumi perfetti, i cittadini hanno una mensa comune, vestono gli stessi indumenti, ricevono tutti la stessa educazione e hanno tutti pari opportunità.

Ma cosa, effettivamente, rende una città perfetta?

Limitando l’analisi ad un passato recente e al nostro paese, abbiamo da considerare, nel Novecento, dalla fine della seconda guerra mondiale, un costante processo di accrescimento del tessuto urbano, con evidenti discrepanze infrastrutturali tra le città del nord e quelle del sud Italia1, ed ancora tra le periferie e la città storica, dove non sempre l’efficientamento è stato corrispondente allo sviluppo “umano” della città e della cittadinanza nel senso della partecipazione ad una comunità.

Nel 1974, Pier Paolo Pasolini, realizza il cortometraggio La forma della città2. Un prezioso documento, nel quale l’autore si interroga sulla cura del territorio e pone l’attenzione verso quel patrimonio edilizio anonimo che è opera della storia del popolo di una città considerata integralmente, e nel quale si riflette sulle conseguenze del fenomeno.

Il problema della città moderna, dunque, deve essere soltanto quello di offrire una abitazione a chiunque, oppure quello di affiancare, attraverso una infrastrutturazione ragionata, una comunità vivace e capace di favorire relazioni umane?

Nel cortometraggio per la RAI, Pasolini scelse di parlare della forma della città di Orte, deformata dalle case popolari, in contrasto con la perfezione assoluta del colle su cui si erge la città. La massa architettonica della città risulta deturpata, rovinata dalla presenza di un gruppo di case popolari alle pendici del colle. Quali effetti può aver avuto sulla società, il fenomeno dello scempio urbanistico delle città?

Gli anni Cinquanta e Sessanta per l’Italia furono i cosiddetti anni del boom economico. L’Italia si stava risollevando dalla distruzione della Seconda Guerra Mondiale, grazie anche agli aiuti economici americani, che mitigarono gli effetti del ritardo tecnologico ed economico del bel Paese. Tutto questo creò le premesse per quel fervore di attività, accompagnato dallo spostamento di grandi masse di popolazione, che fu poi chiamato miracolo economico.

Questo eccezionale sviluppo, però, non fu accompagnato da un’adeguata evoluzione civile e culturale e portò l’Italia a trasformarsi in un’immensa area di lottizzazioni, dove per prima imperversò la speculazione edilizia. Il paesaggio urbano si deteriorava e le campagne erano sempre più compromesse da un’edificazione senza controllo. Premesse di un immenso patrimonio edilizio brutto, spesso degradato e mal inserito nel territorio, dove è difficile immaginare un nuovo umanesimo.

Pier Paolo Pasolini con il suo disprezzo per quelle case popolari, seppur dal punto di vista estetico, e con la sua fotografia sulle periferie industriali, apre una riflessione al sul nostro rapporto con l’abitare che continua ancora oggi. Non è stato il solo.

Anche Italo Calvino nel 19583, aveva già denunciato, nel clima ottimistico agli albori della ripresa post-bellica, la distruzione della costiera ligure, prodotta dal moltiplicarsi delle case di vacanza della nuova borghesia di massa, in un’epoca di bassa marea morale, nella quale l’impegno affaristico prevaleva su quello intellettuale.

Un’altra prospettiva di riflessione sul tema della città comunità è offerta dall’esperienza di auto organizzazione urbana di Danilo Dolci4, che, in Sicilia, costituisce un passaggio obbligato. A distanza di oltre sessant’anni dal suo avvio (1952) il “progetto siciliano” costituisce una lezione imprescindibile, ricca di spunti di ispirazione.

Il dramma irrisolto del degrado delle periferie di alcune realtà urbane, che in altro modo veniva denunciato da Pasolini, l’inarrestabile violenza sui più deboli, il divario crescente tra ricchezza e povertà, gli sfregi all’ambiente, lo spreco di risorse non riproducibili. Un quadro problematico, geograficamente distribuito sul territorio italiano, con picchi di gravità al Sud, da cui emergono, oltre a sacche di irrisolta arretratezza, l’incapacità delle amministrazioni pubbliche di mettere in campo politiche in grado di interpretare i bisogni emergenti e di collaborare con le comunità locali per costruire assieme possibili vie di soluzione.

Ma si tratta, esclusivamente, del problema dello spazio urbano, nella sua accezione più puramente formale, architettonica o infrastrutturale, o la riflessione deve investire anche il tema della qualità delle relazioni che si instaurano all’interno di uno spazio, ordinato o disordinato, che chiamiamo città?

Forse nel tentativo di trovare risposte a queste domande si cela la nascita e lo sviluppo della Movimento Comunità, fondato nella città di Torino, nel 1948 da Adriano Olivetti. Nel 1950, Olivetti, espose la sua visione del primato in campo politico dell’Urbanistica e della Pianificazione. Sotto l’impulso delle sue fortune imprenditoriali e dei suoi ideali comunitari Ivrea, negli anni cinquanta, raggruppò una quantità straordinaria di intellettuali che operavano (chi in azienda, chi all’interno del Movimento Comunità) in differenti campi disciplinari, inseguendo il progetto di una sintesi creativa tra cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica5.

Nel nostro presente la stagione dei lockdown, nel 2020, ha imposto al cittadino una quotidianità ristretta alle abitazioni, ed al massimo ai quartieri, spingendolo ad una riflessione anche sulle relazioni “urbane” cd. di prossimità.

Si può affermare che sia iniziata una nuova fase di riscoperta delle città, che va oltre la definizione tradizionale. La città non è soltanto uno degli elementi umani dello spazio geografico: insediativo o economico, che sta attraversando una fase dell’evoluzione del mondo caratterizzata dall’impronta dell’uomo sulla terra (Antropocene) e che sarà riferimento per l’evoluzione del futuro.

La riflessione sembra crescere e maturare nella direzione della consapevolezza dell’importanza dello spazio della città, strutturato in modo tale da favorire lo sviluppo della persona e delle relazioni di comunità.

Durante “le zone rosse” che hanno caratterizzato la pandemia Covid-19, molte persone sono rimaste bloccate in casa, impossibilitate anche nell’esercizio delle attività più elementari. Sono riemerse, così, le criticità “sociali” che lo sviluppo tecnologico può risolvere solo in parte. I fenomeni di povertà estrema, quelli legati alle fasce più deboli delle nostre società, sono stati affrontati grazie al terzo settore ed a valori come la solidarietà.

Cosa rende, quindi, una città comunità? Quanto può essere importante il senso di comunità per le città del nuovo millennio?

Interrogativi aperti, senza soluzioni che meritano un confronto, su un tema vecchio e nuovo, che, a nostro modo di vedere, dovrebbe essere considerato determinante nello sviluppo della società umana all’interno e mediante il sistema città.

Qualunque città abitata dall’uomo.

 

 

 


1 Alcuni recenti studi e indagini ufficiali, dimostrano che tra le Regioni del Nord e la Sicilia, il gap è elevato. Attraverso un indice infrastrutturale la Regione siciliana appare molto indietro rispetto alle regioni del nord Italia (84,4 rispetto al 113,9 del nord-Ovest). Camera dei Deputati, Mercoledì 18 novembre 2020, 474. XVIII Legislatura. Bollettino delle giunte e delle commissioni parlamentari. Commissioni Riunite (VIII e IX). http://documenti.camera.it/leg18/resoconti/commissioni/bollettini/html/2020/11/18/0809/allegato.htm#

3 La speculazione edilizia è un romanzo di Italo Calvino, pubblicato nel 1963 nella collana “Coralli” (n. 189) di Einaudi.

4 Il metodo di lavoro di Danilo Dolci è parte costitutiva del suo impegno sociale e educativo: piuttosto che dispensare verità preconfezionate, egli ritiene che nessun vero cambiamento possa prescindere dal coinvolgimento, dall’esperienza e dalla partecipazione diretta degli interessati. La sua idea di progresso valorizza la cultura e le competenze locali, il contributo di ogni collettività e di ogni persona. Per questo Dolci collega la sua modalità di operare alla maieutica socratica. Il suo si configura come un lavoro di “capacitazione” (empowerment) delle persone generalmente escluse dal potere e dalle decisioni.

5 Cfr. Fondazione Adriano Olivetti: A. Olivetti, su fondazioneadrianolivetti.it (archiviato il 6 giugno 2013). Adriano Olivetti credeva nell’idea di comunità, unica via da seguire per superare la divisione tra industria e agricoltura, ma soprattutto tra produzione e cultura. L’idea, infatti, era quella di creare una fondazione composta da diverse forze vive della comunità [23]: azionisti, enti pubblici, università e rappresentanze dei lavoratori, in modo da eliminare le differenze economiche, ideologiche e politiche. Il suo sogno era di riuscire ad ampliare il progetto a livello nazionale, in modo che quello della comunità fosse il fine ultimo. https://www.fondazioneadrianolivetti.it/

Copertina del primo numero (1 marzo 1946) della rivista”Comunità” fondata da Adriano Olivetti.

Leave a Reply